Ci sono persone che sono sempre (o spesso) arrabbiate e tristi.

Benché non sia possibile generalizzare – e non è mai giusto farlo –, credo di conoscere la modalità e le motivazioni (spesso inconsce) di almeno una parte di quelle persone.

Lo credo perché per lungo tempo sono stata una di loro, e non è stato bello.
Ma in quel lungo periodo per me è stato molto più facile rimanere in quel campo di rabbia, tristezza, frustrazione e scarsità che impegnarmi per trovare una via d’uscita.
È stato molto più facile trovare ragioni per continuare a provare emozioni familiari che cercare soluzioni diverse.

La familiarità (la zona di comfort) è uno spazio nel quale ci sentiamo a casa e quindi al sicuro.
Poco importa se poi quella casa è triste e, nei fatti, tutt’altro che sicura.
È qualcosa che conosciamo, quindi, per un meccanismo ancestrale, la riteniamo più sicura di qualunque alternativa ignota (in altri tempi, lasciare il noto per l’ignoto avrebbe significato correre grandi rischi legati alla sopravvivenza).

C’è anche da dire che, quando, nella vita, non troviamo o non creiamo momenti per la gioia, l’entusiasmo e la serenità, essere arrabbiate e tristi ci fa sentire che riusciamo ancora a provare qualcosa.
Ci fa sentire che siamo ancora vive.
In un modo poco piacevole, ma pur sempre vive.

E, a volte, ci permette di trovare un capro espiatorio per il nostro malessere.
La rabbia (che a volte nasce dalla frustrazione) e l’invidia (che a volte si accompagna con la tristezza) ci sostengono nel guardare fuori da noi per cercare e trovare persone/situazioni a cui attribuire la responsabilità (se non la colpa) di ciò che in realtà ha origini nel profondo di noi.
Abbiamo di tanto in tanto barlumi della verità quando la persona/situazione che avevamo scelto come capro espiatorio smette di essere tale e, nonostante ciò, continuiamo a sentirci esattamente come prima. Ma spesso sotterriamo quella consapevolezza e andiamo alla ricerca di un nuovo capro espiatorio.

Non è un bel vivere, ma, se ci siamo abituate a quello, è più facile continuare a funzionare nella modalità nota.

Tutto questo accade generalmente nel piano inconscio.
Mettiamo in atto questi processi senza averne consapevolezza.
E finché non c’è consapevolezza non può esserci trasformazione.

Uno dei fondamenti di una vita che sia di ricorrente trasformazione, attraverso processi di Morte e Rinascita che ci portino sempre più vicine a chi davvero siamo, è la pratica della consapevolezza di sé: serve che ci ascoltiamo, che ci osserviamo, che teniamo a bada le critiche (a volte feroci) che siamo in grado di auto-infliggerci per restare in uno spazio di non giudizio, che ci accogliamo con amorevolezza (che accogliamo tutte le parti di noi, anche quelle che non ci piacciono) e che ci prendiamo piena responsabilità di noi, riconoscendo la nostra sovranità e l’autorità che abbiamo sulla nostra vita.

Quest’ultimo passaggio è forse quello più difficile. Imparare a farlo significa diventare adulti – non tanto nel senso che viene attribuito comunemente all’essere adulti (quante persone ci sono là fuori teoricamente adulte, ma che non hanno mai fatto questo passo?), ma nel suo significato di taglio di quel metaforico cordone ombelicale che ancora ci connette a figure autoritarie fuori da noi (genitori, tutori, insegnanti, compagni, mariti… – non significa non avere più niente a che fare con loro, ma cambiare il tipo di relazione che a loro ci lega).

Può essere incredibilmente spaventoso, ma, oh!, che senso di empowerment dona!
È un processo, quello del taglio, che non sempre basta fare una volta nella vita – più spesso occorre farlo e rifarlo perché arriviamo a essere pienamente nel nostro potere personale.
Ma ogni volta la nostra sovranità aumenta.

Finché, un giorno, non ci accorgiamo di aver smesso di essere principesse, donzelle in difficoltà,
e di essere diventate Regine
.

Quelle Regine (e anche quelle che ancora stanno vivendo la metamorfosi) hanno una più grande capacità di scelta e soprattutto una più grande motivazione, rispetto alle versioni precedenti di sé, nel vivere una vita che sia all’altezza dei propri sogni, che sia piena, che non dipenda dall’approvazione altrui, che sia nutriente.

Allora quelle Regine avranno consapevolezza di non poter né voler più vivere in quello spazio di costante arrabbiatura, tristezza, invidia e frustrazione.
Sapranno che ogni emozione è sana quando vissuta nel giusto spazio-tempo, ma che nessuna lo è se diventa una costante.
Saranno coerenti nella loro incoerenza, mai uguali a se stesse, sempre cicliche, spesso eretiche secondo i canoni di questa società.

Le riconoscerete vedendole in giro, perché irradieranno radicamento, centratura, potere e sovranità tanto nei loro momenti di Luce quanto in quelli di Oscurità.

Avranno finalmente spezzato le catene che si erano autoimposte o che forse qualcuno aveva loro imposto ma che avevano continuato a tenere anche quando l’aguzzino se ne era andato.

Saranno libere: di essere se stesse, di essere co-creatrici della propria esistenza, di essere felici.